Una conversazione con Mario Cucinella
Una conversazione con Mario Cucinella
a cura di Massimo Del Seppia, Silvia Lucchesini, Fabrizio Sainati, Pietro Berti
con Giorgio Tartaro
MDS: I progetti di architettura e le città hanno sicuramente evidenziato in questo anno e mezzo di crisi pandemica alcuni aspetti che probabilmente erano già in essere ma che probabilmente non avevamo la forza di affrontare. Come secondo te gli ambienti di vita hanno reagito a questa tempesta?
MC: diciamo che, come hai accennato, la pandemia ha messo in evidenza le criticità di questi ultimi decenni. Sia nel mondo del lavoro che nel mondo dell’abitare. C’è stata in passato una spinta a una costruzione molto legata al profitto, cioè massimizzare l’uso dello spazio indipendentemente dal benessere delle persone. Quindi il mondo del lavoro ha subito uno shock non da poco perché si è posta una questione, ma presumibilmente torneremo di nuovo tutti in uffici da 9 metri quadri a persona. Nel frattempo si è sposato l’asse della qualità della nostra vita, non soltanto sull’aspetto economico, che pure è stato molto centrale. Io ricordo bene come negli ultimi 5-6 anni alcuni developer hanno iniziato a lavorare sull’efficienza dello spazio. Domande come quanto mi costa al metro quadro, quante persone posso metterci? Questo criterio ha dimostrato di essere un limite perché le persone non vivono secondo gli standard di densità nei metri quadrati ma è la modalità con cui interagiscono con lo spazio che hanno per fare le cose. Quindi quel ragionamento ha avuto una prova di non essere quello giusto. E quindi rispondendo alla questione su come torneremo a lavorare dopo lo smart working probabilmente si troverà una soluzione intermedia. Si stanno aprendo degli scenari che considerano delle modalità di lavorare per vivere meglio perché lo smart working non è soltanto un lavoro da casa perché ho figli e perché ho bisogno di gestire il mio tempo, ma piuttosto va nella direzione di costruire un modo di lavorare per vivere meglio. Questo secondo me è il messaggio forte, e questo cambio era comunque assolutamente necessario. E’ chiaro che anche il mondo dell’abitare ha incontrato lo stesso tema; nelle città i prezzi al metro quadro sono talmente alti che si è finiti per costruire sempre più densamente, arrivando ad abitazioni di 40 metri o addirittura 26 metri quadrati. E onestamente non è una buona vita, senza nemmeno un terrazzo diventa veramente una prigione. La questione ha fatto riflettere il mondo dello sviluppo della residenza. Ma il tema dello smart working non va solo visto riguardo al lavoro chiusi nella propria stanza da letto, dove cioè isolarsi dai figli che fanno confusione, oppure in cucina dove però qualcuno ha anche bisogno di cucinare. credo che la risposta non sia tanto nell’ambiente squisitamente domestico ma potrebbe essere invece nel condominio, cioè una piccola collettività che organizza all’interno di un edificio degli spazi comuni più flessibili per il lavoro e la socialità. Credo che la situazione abbia creato anche un’opportunità nuova nel rapporto con il mondo dell’abitare e con il mondo del lavoro che era forse un pò ingessato. Al di là del dramma perché è stato un dramma umano, sociale ed economico quindi sono tutta una serie di conseguenze. Però forse questa pandemia ha veramente ripreso le questioni di questo fine secolo che ci siamo lasciati dietro. Ne abbiamo iniziato uno nuovo spinti troppo da una visione solo economico finanziaria, mettendo da parte il fattore umano. Si riapre uno scenario di progettualità che è già stato analizzato da molti architetti del secolo scorso, all’oggi veramente poco considerati in questo paese o comunque non chiamati a parlare nella società pubblica. Durante questo anno e mezzo di pandemia sono stati sollecitati dal mondo dei giornali e dalla cultura su come vediamo la città del futuro. Se ce lo aveste chiesto dieci anni fa magari ne avremmo cominciato a parlare anche prima di smart working e avremmo forse fatto un passo in più. Per quello che ritengo che gli architetti siano figure importanti nella società civile, chiamati a dare delle risposte, e se li si ascoltasse un pò più costantemente forse magari questa piega del profitto e dell’efficienza magari avrebbe preso anche un’altra direzione. L’obbiettivo di questo tempo ha spostato la discussione su come facciamo a stare meglio insieme. Volevo infatti riprendere il tema della Biennale di Venezia, che è una domanda che dovrebbe avere un punto interrogativo alla fine. Non è come viviamo insieme, già ci viviamo già insieme, ma come ci vivremo meglio.
MDS: nel logo stesso di questa edizione della Biennale abbiamo pensato a un abbraccio sotto ad un arco pisano, che è un arco gotico, ed il tema dell’abbraccio. Il tema Renaissance di questa edizione parte proprio dal rimettere l’uomo al centro e da lì ripartire. Questa è la macro condizione che secondo noi dovrebbe far ragionare su ogni aspetto architettonico. Abbiamo parlato precedentemente della tematica dell’abitazione, di pensare a quali possono essere quei micro interventi che si potranno mettere in gioco ma che non risolveranno uno dei temi della Biennale, che è la casa ed il quartiere. A nostro avviso, il quartiere, pensato come spazio per le attività della comunità, dà una grande mano a quegli spazi abitativi e quindi come accade nei vostri progetti che sembra che stiano andando in questa direzione. Ci puoi parlare di alcuni esempi su cui state lavorando?
MC: La questione è come rispondere a una domanda che è stata mal posta da tempo, su come vivere meglio nella nostra città. Devo dire la verità su questo tema delle città, che è stato oggetto di una grande discussione anche durante la pandemia: andare a vivere in campagna, andare tutti a fare i contadini in campagna è stata una bella reazione, ma certamente un pò eccessiva perché la città è comunque un luogo di grandi opportunità. Forse possiamo pensare a come vivere meglio in città. In Italia è quasi già tutto fatto, non è che ci troviamo a pensare a come costruire il paese nel paese. Ci sarà invece da capire come intervenire su quello che c’è, il tema dell’efficientamento del parco immobiliare degli anni 70 è un mantra che conosciamo da venti, trent’anni. Oggi finalmente abbiamo capito che migliorare le performance dell’edificio non è solo una questione tecnica ma è una questione di welfare. Cioè se tu hai un edificio fatto in povertà edilizia, cioè fatto di niente, sicuramente non è isolato ed insalubre. Se aggiungiamo degli elementi tecnici come un cappotto o delle finestre a doppio vetro o una caldaia nuova, abbiamo fatto un’operazione di mercato perché abbiamo creato lavoro e messo le persone nelle condizioni di vivere meglio. Quindi alla fine se si va a vedere l’investimento che possiamo fare nell’architettura ha una conseguenza immediata sui costi del welfare perché se le persone hanno una condizione di vita migliore, probabilmente scendono i costi sociali legati alla sanità o al disagio sociale. La città costruita va quindi vista un po’ come un sistema complesso, non dobbiamo pensare solo all’appartamento. Se ci chiudiamo dentro l’idea dell’appartamento del futuro solo legato a fare terrazzi, va benissimo ma non può essere quella l’unica politica. Quindi oggi per ripensare alcune aree di sviluppo, per esempio a Milano dove stiamo lavorando, c’è una domanda di residenza che rappresenta un numero assolutamente inarrivabile dal punto di vista dei tempi di costruzione. Quindi c’è una mobilitazione sulle aree ferroviarie e sulle aree dismesse. Quindi su questi quartieri nuovi abbiamo carta bianca per ripensare questa idea di come abitare insieme. Noi abbiamo un cantiere da un anno e mezzo a Milano in zona Bisceglie a 10 stazioni metropolitane da Duomo. La città è a 20 minuti, ancora quindi abbastanza agibile. Ripensare quel quartiere vuol dire creare delle case accessibili. Abbiamo deciso di non fare dei palazzoni ma degli edifici più bassi che hanno di fronte un grande parco pubblico e all’interno di questo sistema di palazzine un’area pedonale. Chi esce di casa attraversa un grande giardino che connette tutti questi ingressi. Gli edifici sono un pò più grandi perché ci siano dei divani e dei salotti dove uno possa incontrare gli amici. E nel palazzo sono dedicati alcuni spazi per gli eventi familiari o per il il gioco dei bambini o dove si possa lavorare; allora è un pò l’idea che il quartiere è un un luogo dove si svolge una parte delle attività di comunità. L’architettura gioca un ruolo importante nella modalità con cui le comunità vivono perché lo spazio condiziona i comportamenti. Quindi è questo credo che sia un pò il focus: una città che sta affrontando una serie di sfide, come le Olimpiadi o il cambio delle aree ferroviarie, temi che attraversano tutto il paese, ma che Milano ha avuto se non altro il coraggio di affrontare.
MDS: Il tema dello spazio collettivo, che è uno degli indirizzi di ricerca della nostra biennale, a nostro avviso, è un elemento fondamentale per la progettazione. Penso soprattutto ai momenti di condivisione che costituiscono il senso dello stare insieme e che durante la pandemia così tanto ci sono mancati. Non trovi che tutta questa tecnologia oggi a disposizione stia dimostrando alcuni limiti e ponendo distanze tra le persone?
MC: E noi veniamo da un paese dove questa storia è lunga mille anni. Abbiamo delle città che sono nate così, abbiamo costruito le piazze e abbiamo fatto tanti portici dove nelle altre città hanno fatto grandi parchi. È una storia non solo italiana, sono città per stare insieme, piene quindi di spazi collettivi. Questo è quello che ci è mancato quando siamo rimasti chiusi in casa per molti mesi. Ci sono mancate proprio le cose che costano meno. Andare in giro a fare un giro nel parco a costo zero, andare in giro in bicicletta, incontrare gli amici, andare a cena insieme. In questa società piena di consumo, quel consumo non ci è servito a niente. Non abbiamo avuto bisogno di fare un giro in macchina, abbiamo avuto bisogno di incontrare i nostri amici. Questo ti dà un po’ l’idea che in questa società alla fine le cose di cui hai veramente bisogno sono quelle che costano meno. In questo momento ci sono delle contraddizioni paradossali, perché da una parte siamo pieni di informazioni e dall’altra c’è un degrado della cultura. Ho accesso a informazioni e posso studiare quello che voglio, posso leggere quello che voglio e dall’altra ci sono un’infinità di informazioni di cui non siamo più in grado di sapere se sono vere o false. Viviamo in questo mondo che per crescere è cresciuto, ma i risultati di questa crescita non sono sicuro che siano proprio quelli di cui avevamo bisogno. Ci siamo accorti che siamo fatti principalmente di natura, non solo di tecnologia.
MDS: Il concetto “noi siamo natura”, mi è particolarmente affascinante e dobbiamo, ponendo l’uomo al centro, riconnettersi con la nature. Proprio da questo punto di vista pensiamo di trovare un filo conduttore nella produzione delle opere del vostro ufficio, che è quello a mio avviso, della ricerca in ogni progetto di quel genere di relazione con l’ambiente.
Riferendomi al noto neurobiologo Stefano Mancuso, riprendendo l’idea di Intelligenza diffusa che è propria delle piante e diversa dalla nostra, essa si struttura secondo un organismo a intelligenza centrale e quindi, dalle piante, abbiamo ancora tantissimo da imparare soprattutto nella percezione dell’ambiente nella sua totalità. Come possiamo applicare questi concetti in architettura?
MC: Abbiamo avuto un dialogo con Stefano Mancuso, che ha aperto una porta su un mondo che forse conosciamo ancora troppo poco; quando parliamo di futuro ci immaginiamo sempre un futuro tecnologico e invece forse il futuro si nasconde proprio invece nello studio di quello che c’è a fianco noi, questa pianta qui a fianco, ad esempio, ha 4.5 milioni di anni, è presente nel pianeta di 4.5 milioni di anni. Quindi pensare che in questi milioni di anni le piante abbiano dovuto attraversare ere glaciali, cambiamenti climatici, stravolgimenti, spiega bene questa idea dell’intelligenza collettiva, perché è un organismo che nei milioni di anni si è dovuto adattare a mille trasformazioni, eppure è quella che ha permesso a questo pianeta di avere ossigeno, perché prendono CO2 e lo trasformano in ossigeno e quando sono nate c’era solo CO2. Questo meccanismo che ci permette la vita lo hanno sviluppato per sopravvivere usando l’unica via possibile, ci stanno quindi raccontando delle storie bellissime sull’ adattamento al clima, per i nostri edifici che sono invece generalmente abbastanza stupidi. Questo tema del rapporto con il mondo delle piante ci può dare tante indicazioni nell’edilizia che pur avendo anch’esso una storia millenaria, rispetto alle piante abbiamo un deficit di 4 milioni e trecentomila anni. Mancuso ha colto questo parallelismo per cui forse dobbiamo studiare i comportamenti delle piante e capire come si adattano nella forma per riuscire a vivere nelle condizioni più estreme. Del resto, anche noi ci siamo adattati a vivere al polo nord come nel cuore del Sahara, quindi abbiamo anche noi capacità di adattarci. Però nei secoli abbiamo costruito edifici che avevano un problema di fondo, cioè le risorse non erano quelle di oggi, non c’era il gas e quindi la luce. Eppure abbiamo costruito le città. Quindi la componente tecnologica che ovviamente ha permesso al mondo di fare un viaggio in avanti si è svolta in un tempo brevissimo. Questo ci ha però presentato poi un conto salatissimo. È vero che l’espansione nell’economia e della popolazione ci obbliga a costruire molte case per la gente, però noi siamo partiti come una scheggia su una visione del mondo tecnologico e ci siamo dimenticati che abbiamo a che fare con il clima e con le materie le materie in un mondo finito dal punto di vista delle risorse. Quindi l’insegnamento di Mancuso non è tanto che dobbiamo fare gli edifici con gli alberi, perché l’edificio e l’albero sono solo due cose messe insieme artificialmente, abbiamo solo una vasca di cemento con dentro una pianta, questo non è un progresso ma solo un alibi perfetto. Dobbiamo invece capire come prendere una lezione da una pianta e capire come è stata capace di adattarsi e dove sta il suo segreto. Quello è ciò che a noi interessa esplorare.
Se mettiamo insieme non tanto l’idea muscolare della tecnologia, cioè gli impianti, che sono un po’ come il nostro sistema nervoso; se prendiamo un colpo alla testa il nostro corpo è finito. Noi dobbiamo immaginare che come quando si taglia un ramo di una pianta questa non muore ma continua a sopravvivere efficientemente da sola. Quindi il tema è trasformare una materia intelligente, ossia immaginare in tempi anche abbastanza vicini di costruire edifici che non hanno neanche bisogno dell’energia. Il massimo sarebbe utilizzare solo l’energia che trova intorno a sé. Ce lo siamo detti tante volte, c’è una letteratura sconfinata che dimostra che se prendessimo il %100 della radiazione solare avremmo coperto i bisogni energetici, ma il problema non è così semplice, l’energia non la puoi trasformare da solare in elettrica in un attimo, è un processo complicato.
MDS: “Imparare anche dalla forma”. Questo è uno dei concetti chiave che mi ha molto colpito e che influenza il modo in cui poi come studio lavorate. Vi riferite spesso a forme naturali come ispirazione per i vostri edifici, come per esempio alla forma del cactus, che riesce a vivere in ambienti estremi grazie anche alle caratteristiche della sua forma corrugata, riuscendo così a procurarsi ombra sulla propria superficie consentendo quindi un conseguente raffrescamento grazie a micro correnti d’aria.
Quindi quel tipo di atteggiamento, di totale empatia verso l’ambiente delle piante e riuscire a capire questi segreti e a trasformarli in architettura, è un obiettivo da raggiungere. Penso poi all’epopea del “moderno” e a quanta differenza di attitudine al progetto si poneva in quegli anni.
Sono stati straordinari gli anni ’30, eroici, ma oggi ne siamo ancora profondamente legati e tale approccio al progetto risulta ormai inadeguato dovendo riuscire a far comprendere quanto sia indispensabile cambiare il modo di pensare l’architettura in sintonia con l’ambiente.
Ritieni che questa sensibilità possa essere compresa anche dai non addetti ai lavori e quindi diventare linguaggio comune?
MC: La fine 900 è stato un periodo della storia dell’umanità in cui avevamo davanti una sconfinata fiducia sulla tecnologia. Dopo la Seconda guerra mondiale il mondo ha continuato a credere in un futuro meraviglioso, è una sensazione e un ottimismo che invidio alla generazione dei miei genitori, che alla fine degli anni 60 nonostante avessimo dietro questo dramma dell’umanità, è riuscita a fare cose straordinarie. Oggi quel pensiero non funziona più, la pandemia ovviamente ci ha aiutato a capirlo. Il conto che è arrivato dal punto di vista ambientale e finalmente comincia ad arrivare nell’opinione pubblica che ormai vede e tocca con mano gli effetti della crisi climatica sulla propria vita. Mi hanno distrutto la casa ho perso la macchina e non riesco più ad andare a lavorare. C’è un problema che è già sulla nostra vita, non è soltanto a carico degli scienziati hanno quindi negli ultimi anni questa cosa è entrata nell’opinione pubblica. Questi avvenimenti hanno fatto pensare a tutti quanti che forse questo periodo sia verso la fine e che, perdonatemi l’abuso del termine, c’è il mondo al centro dell’universo e non l’uomo.
Questo periodo che abbiamo passato di fiducia straordinaria è ben raccontato in un affresco che c’è a Città del Messico di Diego Riveira al Palazzo del Governo, dove la fiducia infinita delle capacità dell’uomo di governare il pianeta è rappresentata da un uomo in questa macchina che governa ogni cosa, dalle stelle alle molecole, al pianeta agli uomini. C’è questa idea che gli uomini possano gestire e controllare tutto. Ora tutto questo grande sogno di governo del mondo, che è anche un po’ un sintomo di una paura, perché di quello che non conosciamo abbiamo paura, e quindi lo governiamo attraverso questa aggressività. Ecco quel mondo è cambiato oggi noi non siamo al centro dell’universo, osservando invece il nostro peso allora magari vai a cercare finalmente un dialogo con la terra e con il mondo vegetale. L’architettura può prendere una strada, che non può essere certo la forma di una pianta, perché poi l’architettura, bisogna ricordarselo, non è una cosa che nasce spontaneamente. C’è un tema urbanistico, c’è un tema di norme, non è così semplice fare questo mestiere, perché le ambizioni, che sono importanti, le devi mettere dentro a un sistema complesso. Ma le norme sono infinitamente più indietro rispetto alle ambizioni che abbiamo in questo momento, non sono adeguate al salto che vogliamo fare.
MDS: come possiamo noi architetti, in qualche modo, incidere in questo mondo così complicato: qual è il tassello mancante che possa collegare la politica alla progettazione?
L’architetto ha sempre, a tuo avviso, il ruolo di colui che può rispondere alla fatidica domanda: come sarà la città del futuro?
MC: La politica è scomparsa perché non ha più capacità visionaria, la parola creatività in politica è un ossimoro. In questo momento non ci sono più neanche i filosofi, che sono importanti perché sono quelli che mettono insieme i pezzi e ci danno una strada per capire dove vogliamo andare. E poi ci sono gli architetti, che pure fanno un lavoro di sintesi ma mettendo insieme tante competenze e dandogli una forma di estetica. Quindi ho l’impressione che, nonostante ciò, ci sia grande reticenza a lavorare con gli architetti, a considerarli importanti nello sviluppo di una società quando di fatto sono quelli a cui si chiede come sarà la città del futuro. È una domanda politica, una domanda economica, una domanda di costruzione, lo chiedono agli architetti e non a un ministro a un ministro perché tanto lui non ti risponde se non con una risposta molto vaga. Quindi ho l’impressione che in questo fine di questo secolo che ci siamo lasciati alle spalle sia iniziato un nuovo sistema in cui il lavoro dell’architetto che è un umanista, un visionario, un creativo e infine anche un tecnico, sia proprio quello di mettere insieme i tasselli.
è anche la figura che conosce le norme e la loro complessità ed è quindi uno dei pochi mestieri che può maneggiare una materia così complicata. E quello che dico sempre: attenzione, fare l’architetto è un mestiere difficile perché devi avere a che fare con un universo complessissimo. In più deve anche fare delle cose belle, innovative, ecologiche, in una città piena di norme e con un budget deve funzionare, dove ci si deve abitare bene e dove essere felici. È per questo che dico che è importante questo mestiere. E sempre più importante
GT: Una delle cose che forse interviene oggi nella forma dell’architettura è la ricerca che si fa con chi rende possibile la realizzazione dell’architettura, quindi le aziende e lo standard dell’industrializzazione che sempre di più spinge un po’ più in alto l’asticella. Alcuni edifici hanno una certa forma una certa pelle perché esistono certi codici dove si sta spingendo la ricerca.
MC: Si è aperto uno scenario sul tema delle nuove materie che vengono dal mondo del riciclo. Materiali che sembravano materie di seconda categoria ma che in realtà sono bellissime. Ad esempio esistono ceramiche pure molto belle al 100% riciclate, soluzioni dove non si usano gli alberi, ma gli scarti o intonaci che assorbono l’umidità. C’è un mondo che sta guardando al recupero delle materie per trasformarle in materia nobile. Il principio su cui si sta lavorando è l’idea che il concetto di bellezza che non è solo un fatto estetico. All’interno di quella materia c’è un valore aggiunto. Vediamo adesso moltissime aziende italiane che lavorano su questi temi di cui non si parla mai. L’Italia ha su questo una grande leadership. Per una ragione molto semplice, ossia il provenire da una cultura dove il rapporto con la materia è sempre stato scarso.
GT: Tu hai curato il Padiglione Italia per la Biennale di Venezia. Questa Biennale di Pisa è giunta alla quarta edizione. Vorrei una tua idea, un messaggio su questo tipo di iniziative sul territorio. Che significato hanno secondo te queste proposte?
MC: Io vengo dalla mia esperienza. Il Padiglione Italia è costato un anno e mezzo di ricerca e questo ti dà anche l’idea del senso di fare di questi eventi. Questi eventi hanno senso se dietro hanno prodotto un lavoro di ricerca che altrimenti non potresti fare. Quindi il senso per noi non è stato solo l’esposizione dei progetti ma è l’individuare dei gruppi di architetti ingegneri economisti che per due anni hanno portano avanti una ricerca. La Biennale è l’espressione di quel traguardo che è stato portato un po’ più avanti. Perché non basta più mostrare i progetti, quelli ormai li vedi quando vuoi e come vuoi sulle reti. Non è neanche tanto la novità, ma il senso è proprio quello di creare dei luoghi dove venga raccontata ad esempio la ricerca sulla materia, che invece è sempre scarsa nella comunicazione. Quindi una Biennale porta avanti un prodotto e lo presenta e questo è molto educativo, perché poi spesso queste mostre attraggono moltissimi giovani che hanno Queste mostre hanno un l’impatto sociale e culturale molto importante quindi ha senso farle forse con dei filoni di ricerca molto mirati, come quest’anno a Pisa con il filone dell’abitazione e degli spazi del lavoro; oggi è una domanda che è sul tavolo e le risposte non sono molte, quindi andare in un luogo dove trovare queste risposte che occupano un grande settore del mercato è molto importante. Da una parte in modo estemporaneo e veloce e dall’altro con un percorso più lento di ricerca per rappresentare davvero il futuro. Questo secondo come dovrebbe essere il suo senso.
MDS: la biennale di architettura di Pisa lavora sull’esperienza di laboratorio sulla città, lavorando su un doppio registro, fra gli esempi internazionali che possiamo vedere con questa ricerca di cui parlavamo nel panorama internazionale e cercando di applicarli anche sul territorio, ad esempio, ci ha colpito molto, parlando anche con Silvia Lucchesini, è stato il progetto Tecla, particolare sotto due aspetti: si apre agli scenari della stampa 3D, e dell’altra continuità col paesaggio. Perseguendo questa strada andiamo a costruire con queste tecnologie innovative pero sempre guardando alla storia del luogo, alle caratteristiche climatiche e tutti questi aspetti. Un’altra situazione che ci ha colpito molto, sia per l’atteggiamento e la visione culturale ma anche per la difficolta tecnologica è il progetto Fondazione Rovati. Ci puoi parlare di questi progetti?
MC: L’esperienza di Tecla, è stata molto particolare. È nata in collaborazione con Wasp, società che produce stampanti di Massimo Moretti, che ha avuto l’idea di provare a stampare con materiali naturali. Questo è un dibattito Europeo e Americano, in Germania ormai le fanno e le vendono, le puoi comprare. Hanno capito che il mondo delle stampanti è ormai legato al mondo delle imprese. La sua peculiarità è la velocità di esecuzione e di posa di un materiale tecnico e preciso che accorcia tutti i tempi, può partire da un progetto di architettura tecnica molto sofisticato ed essere messo dentro a un computer che crea dei codici che arrivano alla stampante, e la costruzione è già finita. È chiaro che questo interessa molto chi vuole produrre case ad alta tecnologia. Non ha infatti ponteggi o casseri, un po’ come le macchine elettriche dove hai una riduzione di componenti. Sembrava fantascienza dieci anni fa, adesso siamo già a un livello molto sofisticato. Alla stampa 3d ci lavora tutto il mondo dell’industria che si trova davanti a un problema globale; perché per quanto si voglia negarlo dobbiamo costruire ancora, ma ottimizzando le risorse di materiale. Tecla però, oltre a ciò, nasce dall’idea di rompere un paradigma. Oggi abbiamo un’agenda ambiziosa, con l’obbiettivo del 2050 ormai alle porte di avere una riduzione dell’80 per cento di emissioni cO2. Ma nonostante gli accordi di Parigi le emissioni continuano a crescere. Dal 2021 gli accordi di Parigi vengono finalmente misurati, tutti i paesi. C’è stata una grande presa di coscienza e di azioni, spinta che ha trovato la sua voce anche nella new European Bauhaus. Tutti si sono chiesti come fare, non si possono più usare vecchi strumenti. Tecla ha voluto rispondere in un unico manufatto a tutte queste richieste; km 0, impatto 0, materiali naturali, piano di riciclo, per rispondere a questa domanda. Tecla non nasce per essere la casa del futuro, è stato un esperimento, ce l’abbiamo fatta, ora dobbiamo fare un passo avanti. Il senso era dimostrare che si può fare. Era inoltre un link con la storia dell’umanità, abbiamo costruito città di terra per millenni. La terra era il materiale disponibile e con quello abbiamo fatto. C’è una cultura straordinaria di case di terra, abbiamo quindi riagganciato un pezzo di storia che si è interrotta. E come essere in una foresta, il nostro corpo avverte di stare meglio nella natura. Anche con Tecla ti sembra di avere questa sensazione. Ti mostra che la materia è importante, la senti, e un’empatia, il corpo riesce a percepire queste sensazioni.
Il Museo etrusco della Fondazione Rovati è un’avventura completamente diversa. E’ un museo dentro una casa dell’800. Come adattare un’architettura di quel periodo a un museo? a Milano c’è una tradizione di famiglie importanti che lasciano una “casa museo”. Ma questa in particolare è una famiglia di grandi collezionisti sia di arte antica che contemporanea che ha deciso di aprire la sua collezione al pubblico. La storia della collezione etrusca è abbastanza interessante, stiamo parlando di un segmento della storia degli etruschi che prende 9 secoli, qui parliamo di un segmento fra il quarto e il quinto secolo, una collezione che parla della storia della terra cotta che passa da una forma grezza a una molto fine, nera come un vaso di metallo, un racconto di come il mondo dell’arte ha interpretato il viaggio della morte, che le prime forme pagane vedevano come un viaggio; i vasi che raccontano questo passaggio. Abbiamo fatto un museo ipogeo, che si ispira alle tombe etrusche, uniche architetture rimaste di questa civiltà, in pietra serena, la pietra dell’appennino tosco emiliano. Da Fiorenzuola alla Toscana, c’è una vena inclinata, con colori e intensità diverse. Per realizzare il museo abbiamo usato 30.000 pezzi su misura, 700.000 bulloni, tutti disegnati da noi, e spediti all’azienda il Casone, che ha ottimizzato i pezzi e li ha tagliato per sei mesi; oggi la parte architettonica del museo è finita. La domanda era come creare in uno spazio così settoriale dell’arte un’emozione. L’architettura ha giocato un ruolo fondamentale, perché mentre scendi sottoterra, nelle tenebre, senti questa pietra che ti avvolge. Il museo ha linee molto morbide e sagomate, non ci sono angoli, mentre dentro ci sono delle teche espositive fatte con scaglie di vetro molto spigolose, come i cristalli che trovi dentro le pietre. La collezione è curata da Salvatore Settis, per coniugare i pezzi storici con quelli contemporanei per creare uno shock e dare un messaggio importantissimo che l’arte è una storia continua senza fratture, che noi abbiamo invece rotto con il modernismo. Vedere un pezzo di Marino Marini e un vaso etrusco di un artista sconosciuto rende per me manifesta l’affinità e anche la sensazione di essere 100% terra e natura ma anche cultura; l’archeologia con un approccio di questo tipo secondo me è una suggestione nuova. Ai piani di sopra c’è poi una grande collezione di arte contemporanea, c’è anche un Andy Wharol molto particolare, quando visitò Paestum vide una scultura di due sposi, e tornato a New York si ispirò ad essa. L’esposizione è un viaggio nella storia di un palazzo con una sua storia importante, prima della famiglia Bocconi, poi Rizzoli Carraro; il piano nobile, realizzato a suo tempo dall’Architetto Perego, con le boiserie in stile impero francese che abbiamo mantenuto, raccontano un po’ anche la storia della borghesia Milanese, completando il viaggio.
MDS: volevo passare adesso ad un progetto che è stato realizzato dal vostro studio nel nostro territorio: il Palazzo senza tempo di Peccioli. L’ innesto di questa architettura ha suscitato interesse anche tra i colleghi e che addirittura sta generando una sorta di interesse turistico. Puoi parlarci di questo dialogo tra contemporaneo e la città storica?
MC: il tema del rapporto tra il contemporaneo e la città storica è un pò il nostro grande peccato originale, non siamo più riusciti infatti a superare questa barriera e in fondo rappresenta un po’ quello che abbiamo detto per esempio in Biennale ad Arcipelago Italia; che il rilancio delle aree interne e dei borghi passa attraverso l’architettura contemporanea. riuscire ad inserire all’interno di un borgo antico, un pezzo di architettura contemporanea in cui sentirsi nel proprio tempo. Questo è molto importante per il rilancio di questo tema, grazie a un sindaco come Renzo Macedoni, un uomo di grande grande tenacia, e nonostante le mille difficoltà che abbiamo trovato. Da una parte è necessaria una politica che ci crede davvero e dall’altra l’uso della giusta misura, il recupero dell’edificio storico infatti è stato abbastanza ordinato. Abbiamo rifatto le scale e rimesso l’ascensore, creato questi bow window, grandi occhi che guardano il paesaggio. Dentro però c’erano anche delle funzioni pubbliche, sotto c’è infatti una mediateca e una biblioteca, e una piazza nuova che guarda questo paesaggio e si getta verso la valle. Anche io sono rimasto sorpreso dell’interesse del mondo professionale, da parte di professionisti che apprezzo molto. E’ quasi un miracolo aver inserito in una città storica italiana un pezzo di architettura contemporanea, gentile ma piuttosto evidente. Secondo me questo da un po’ di fiducia alla possibilità in futuro di ricostruire veramente un dialogo con la storia.
Massimo Del Seppia Architetto