michael on March 12, 2024

Una conversazione con Massimo Pica Ciamarra

Una conversazione con Massimo Pica Ciamarra

a cura di Massimo Del Seppia, Fabrizio Sainati

Ricerca continua di qualità per gli ambienti di vita

10 temi 10 domande.

Intervista a MASSIMO PICA CIAMARRA

 

Introduzione

a cura di MDSAP + FSA

 

Le grandi trasformazioni cui stiamo assistendo attendono risposte ormai urgenti: nell’aria si percepisce una forte esigenza di cambiamento. Il compito che ci attende è quello di cogliere queste istanze modificando i nostri comportamenti ed elaborando nuovi modelli in grado di garantire uno sviluppo che sappia dimostrarsi compatibile con le nuove dinamiche globali ed al contempo non rinunci a garantire equità collettiva. Occorre una nuova alfabetizzazione diffusa, capace di sviluppare una più marcata sensibilità in materia ecologica, estetica e sociale. Il pensiero di Massimo Pica Ciamarra, architetto e intellettuale, è oggi quanto mai attuale; da sempre egli ha allargato il proprio orizzonte visuale parlando di reti anziché di punti, di città ancor prima che di singoli edifici, di eteronomia anziché di autonomia dell’architettura. I frammenti sono parte di un più ampio mosaico: l’obiettivo non è mai il segno urbano fine a se stesso o il “capolavoro” isolato bensì la ricerca della qualità diffusa all’interno degli ambienti di vita. Certo, il dettaglio, la composizione dei volumi, la corretta funzionalità tradotta in planimetrie ben disegnate sono fondamentali nel lavoro dei PCA, ma tutto è al servizio di una qualità che potremmo definire di livello superiore: mai le soluzioni sono dettate dall’esigenza di soddisfare l’ego dell’architetto; al contrario, l’ascolto delle necessità e la conseguente capacità di dare corrette risposte sono costantemente al centro della loro ricerca. Fin dagli inizi della carriera, infatti, Massimo Pica Ciamarra e il suo gruppo – che nel tempo si è modificato mantenendo però la continuità di una visione condivisa – hanno sempre lavorato in questa direzione, privilegiando lo spazio pubblico collettivo che, come ci ricorda Oriol Bohigas, sostanzia la qualità della città.

L’uomo deve riconnettersi con la complessità della natura sentendosene parte integrante e non assurgendo al ruolo di dominatore assoluto; l’homo insipiens deve lasciare spazio all’homo sapiens, integrando la propria capacità costruttiva con le esigenze ambientali. Armonia ed Equilibrio sono le parole chiave per il futuro: la ricerca di qualità degli spazi di vita in armonia con l’ambiente ha assunto oggi un’importanza decisiva. Per utilizzare una terminologia cara a Pica Ciamarra, l’antropocene è superato e deve lasciare spazio ad un nuovo ecocene nel quale la natura torni a rappresentare il disegno generale di cui l’uomo sia parte integrante ma non dominante.

La grande sfida che ci attende non sta quindi nel proseguire in una trasformazione del nostro mondo che si sta mostrando incompatibile con equilibri già alterati, ma nel riparare ciò che oggi appare fortemente danneggiato: urge dunque un cambiamento di fase.

Frugalità, prossimità, integrazione, dialogo sono alcune parole chiave che Massimo Pica Ciamarra ha tradotto in progetti, sempre aspirando al modello di una sua città ideale, possibile, ricca di significati, equa ed accogliente.

Leggendo il suo recente “Sette conversioni”, possiamo intendere quale sia stata per lui la stella polare durante il lungo viaggio alla ricerca della qualità degli ambienti di vita: nel corso dei sessant’anni di attività possiamo cogliere direzioni di ricerca costantemente convergenti verso un unico obiettivo, rappresentato dalla qualità della città pubblica. Per i curatori della Biennale pisana questo è l’aspetto fondamentale, che si traduce in una condivisione d’intenti e di visioni sul ruolo dell’architettura, tesa a inseguire un nuovo equilibrio sociale consentendo di mettere in atto fondamentali principi di convivenza all’interno delle comunità urbane.

La continua ricerca della qualità diffusa all’interno di ogni singolo quartiere è per Massimo Pica Ciamarra obiettivo primario che tutti i suoi progetti – sia a scala urbana che di dimensione più contenuta – vogliono raggiungere. Realizzazioni come la Città della Scienza o la Biblioteca di Pistoia sono sempre “semi nella metropoli”, occasioni di nuovi inizi, cuciture, raccordi, volti ad unire e connettere singoli punti legati da reti urbane dense, con il costante obiettivo della creazione di Luoghi.

In omaggio al contributo che Massimo Pica Ciamarra ha offerto alla cultura architettonica italiana, l’associazione LP ha ritenuto di riunire in questo volume i saggi critici che dieci autori hanno generosamente offerto fornendo la propria lettura del suo pensiero teorico e della corposa attività progettuale.

Analizzando il percorso didattico e professionale di Massimo Pica Ciamarra, leggendo i suoi scritti e visitando le sue architetture abbiamo inoltre elaborato dieci domande che consentano una sintetica illustrazione dei risultati della sua ricerca.

 

  1. Senso/Significato oltre gli aspetti formali

Ci sembra che gli aspetti formali abbiano avuto un ruolo secondario nel tuo lavoro, non possiamo certo affermare che siano trascurati, ma sicuramente il tuo obiettivo principale è sempre stato il senso profondo dell’architettura e dei luoghi. Senso e significato oltre gli aspetti formali: puoi spiegare come crei senso per un luogo?  Quali sono i presupposti per arrivare a dare una logica agli ambienti di vita?

 

MPC     Luogo è parola significativa: è l’opposto di “non-luogo”, neologismo di fatto dispregiativo. Ne tento una definizione: è un “ambiente di vita” dotato di identità nel quale si saldano architettura / disegno urbano / paesaggio / reti sociali. È condizionato da morfologia, clima e fattori di scala superiore fra cui -non secondarie – le memorie che contiene. Sua prima qualità è aggregare, favorire socialità. Non è statico, è dinamico perché si trasforma nel tempo. Ne esistono, ma occorre anche crearne, specie nell’urbano privo di senso ormai dominante. I suoi caratteri formali possono contemplarsi, soprattutto però li completano presenze e azioni umane. Lo rafforzano nel tempo aggiunte e trasformazioni -anche immateriali- e le memorie collettive e individuali che vi si stratificano.

Si tratta prima di tutto di intuire le potenzialità dei contesti, di quanto contribuisce a definirli. Il progetto può diventare “sostanza di cose sperate” se legge e interpreta quanto c’è, se contribuisce a consolidarlo o magari lo sovverte immettendolo in un nuovo lattice di relazioni.

Tutto questo presuppone distinguere “architettura” (punta alla bellezza, identifica una costruzione, le sue qualità, la sua possibilità di essere contemplata) e “ambiente di vita” (punta all’armonia; identifica un insieme definito da relazioni, pronto a modificarsi ed essere completato da azioni umane).

Tutto questo significa anche evitare edifici che “ingombrino” il territorio; considerarli invece strumenti in grado di contribuire a formare “paesaggi“ (nell’accezione europea) e “città” (nella sua radice etimologica, e anche nel senso che ispira questa Biennale: “La Città condivisa. L’architettura per un nuovo equilibrio sociale”)

 

 

  1. Evitiamo le semplificazioni per rispondere a problemi complessi.

La città, così come più in generale la vita delle persone, hanno bisogno di una sofisticata capacità di lettura ed interpretazione. I problemi sono molto complessi da risolvere e spesso ascoltiamo risposte facilmente comprensibili ma sbrigative, prive di una vera analisi, che si dimostrano rapidamente sterili nell’esito reale.

Qual è il metodo che segui per affrontare un tema progettuale?

 

MPC     Difficile a definirsi in poche righe. Lo tentai in “Interazioni. Principi e metodi della progettazione”, volume composto di due parti (I°: “ragioni simultanee” / II°: “sequenze”) concluse da poche righe (“sequenze caotiche”) che mettono in dubbio le duecento pagine precedenti. Dopo quasi trent’anni, queste andrebbero aggiornate ma senza perderne il messaggio di base: la necessità di agire con logica sistemica; di avvalersi al massimo grado di simultaneità e visione globale; di rifiutare le ottimizzazioni proprie delle singole ottiche settoriali; di avvalersi delle complessità.

In altre parole ciò si traduce nel rifiuto di ogni autonomia, nel credere nell’eteronomia, nel privilegiare le relazioni rispetto alle singole cose. Nell’indispensabile sintesi che impronta il nostro dialogo, riduco la mia base metodologica a tre assunti:

  • priorità alla conversione ecologica (nella prospettiva di abbandonare l’Antropocene per dirigersi verso l’Ecocene, l’era che consentirà la nostra permanenza sul pianeta)
  • interesse per gli “ambienti di vita”, più che per i singoli episodi che li costituiscono (è la loro qualità che favorisce spiritualità, socialità, sicurezza, economia, benessere, …)
  • poetica del “frammento” (affranca dalla triade vitruviana e considera prioritari principi e logiche di relazione)

 

 

  1. Verso l’Ecocentrismo: dall’Antropocene all’Ecocene. Per una nuova alfabetizzazione dell’ecologia e della qualità degli ambienti di vita.

Sembra che non riusciamo a comprendere che il pianeta può fare tranquillamente a meno di noi, anche alcuni studi sostengono che l’impronta del genere umano in poche centinaia di anni possa essere cancellata ma, ciò nonostante, continuiamo a considerarci altro rispetto alla natura. Siamo parte integrante della natura ma non rinunciamo ad aggredirla senza sforzarci di comprendere come progredire in empatia con l’ambiente nel quale siamo immersi e che non è un semplice sfondo alle nostre attività. Come possiamo tornare a sentirci parte integrante del “sistema Pianeta Terra”, come possiamo convertire il nostro modo di pensare ponendo al centro la natura di cui facciamo parte senza considerare il genere umano come unico centro gravitazionale?

 

MPC          Il vero avvio della “conversione ecologica” risale ai primi anni ’70, ben sostenuto dalla lungimirante visione di Aurelio Peccei e dal rapporto del Club di Roma / MIT. Oggi la si riduce a “transizione ecologica”, termine molto diverso ed equivoco perché implica reversibilità: già ne emergono chiari sintomi. È evidente l’urgenza di un cambiamento sostanziale e profondo, di guardare al futuro con impostazione e ottica transgenerazionale.

Come ogni altra specie vivente, anche l’homo sapiens per millenni non ha mai creato conflitti con la natura: ne è sempre stato parte inscindibile. L’inizio dell’“antropocene” segna una svolta: il Sapiens tende ad evolversi verso l’Insipiens, che, illudendosi delle sue capacità, rifiuta la complessità e ritiene che basti risolvere di per sé ogni singolo problema. Occorre una vera e propria mutazione: l’era dell’integrazione deve soppiantare quella della separazione.

Verrà un giorno in cui la visione sistemica sarà vero patrimonio di tutti ?

Possiamo avvicinare questo momento diffondendo l’alfabetizzazione all’ecologia e alla qualità degli ambienti di vita. Come la musica incide sulla formazione anche dei neonati, educare sin da piccoli ad avvalersi delle qualità degli spazi in cui si vive, a comprenderle e distinguerle, farà evolvere la domanda delle comunità di ambienti di vita stimolanti, ecologici, rasserenanti. Questo porterà a sua volta alla formazione di progettisti sempre più colti e capaci.

Purtroppo oggi ancora prevalgono domande settoriali; ancora dominano risposte dirette alle esigenze funzionali; non ci rende conto che la sommatoria di singole risposte determina insiemi con problemi maggiori di quelli di volta in volta singolarmente risolti. È negativo sottovalutare l’incidenza della qualità degli ambienti di vita sul benessere umano. Le neuroscienze si occupano anche di questo.

 

  1. Punti/Reti. La logica del frammento

Crediamo molto nella qualità dell’architettura, nel disegno, nella filosofia di un progetto, nella composizione di volumi sotto la luce che possa diventare sostanza di cose sperate ma a condizione che tutto ciò entri a far parte della città, vista come sistema di relazioni denso di significato: una parte dell’intero, funzionale ad esso e mai indipendente. Anche il più importante monumento non deve mai relazionarsi soltanto a se stesso ma essere considerato parte di quel meraviglioso mosaico che è (o dovrebbe essere) la città, in perfetto equilibrio tra natura e artificio.

Come ti avvicini a questo percorso progettuale? Quali sono le premesse per creare frammenti di città?

 

MPC     La “poetica del frammento” aspira al non-finito; presuppone relazioni, scambi e completamenti, non di sola immagine. Non si limita alla dimensione ambientale ed ecologica; non si esaurisce in questioni di paesaggio; tende a esplorare il contesto formale insieme a quello politico, storico e sociale: la nostra cultura non confonde “natura” e “paesaggio”. Per noi europei “paesaggio” è l’indissolubile intreccio fra natura e attività umane: lo testimonia anche il fatto che la quasi totalità del Patrimonio dell’Umanità custodito nel nostro Paese includa elementi artificiali.

“Frammento” non indica parte di qualcosa che ha subito una frattura, ma quanto va a comporre un insieme; quanto nasce sapendo di non essere solo, avendo l’ambizione di entrare a far parte di superindividualità mai finite e costantemente in sviluppo. Perché sia elemento di un tutto, ogni frammento deve essere “informato” dagli e degli insiemi di cui è parte.

Nel trasformare gli ambienti di vita non si può che agire per parti: ritengo grave concentrarsi su una parte scambiandola per il tutto. È confusione di obiettivi; ottica settoriale, non sistemica; prevalenza dell’individuale sul collettivo; egoismo, non partecipazione.

Perché un intervento -quale sia la sua scala- sia parte o “frammento” di un insieme occorre che il suo processo di definizione attraversi molteplici punti di vista, quanto più simultanei possibile; comunque occorre intrecciare conoscenze e competenze propense al dialogo, aperte al confronto.

Vorrei condividere l’ambizione di poter sperimentare continuamente la transizione da edifici isolati -che si affastellano o che ingombrano lo spazio- a quanto invece contribuisce a formare “paesaggi“ e “città”.

 

  1. Oltre Vitruvio. Da autonomia all’eteronomia dell’architettura

Oltre Vitruvio è un paradigma. Occorre superare l’antica triade per adeguarsi alle nuove sfide in cui l’architettura non può essere autonoma ma sempre significante di una parte. Vitruvio, a nostro avviso, pensava in questi termini ma le sfide del tempo erano diverse, duemila anni fa l’impronta dell’uomo era più modesta ma oggi dobbiamo necessariamente andare oltre, trovare nuovi termini di dialogo con il contesto di cui facciamo parte.

Come progetti per andare oltre l’autonomia dell’artificio e relazionarti con il contesto?

 

MPC     La triade vitruviana è alla radice dell’autonomia dell’architettura. Ha avuto un ruolo quando il costruito era parte minima nei territori, finché prevaleva “l’architettura senza architetti” intrecciata con quanto costruivano “muratori che avevano imparato il latino”: tutto ciò produceva una “seconda natura finalizzata ad usi civili”.

Oggi sappiamo bene che la funzione è solo un pretesto, che va soddisfatta anche se di per sé precaria, che flessibilità / adattabilità / trasformabilità sono valori importanti. Sappiamo bene che l’armonia prevale sulla bellezza e che la “firmitas” non deve negare altri valori. La triade vitruviana chiude in sé stessa ogni costruzione, mentre oggi c’è soprattutto necessità di relazioni. Non basta “il dialogo fra gli edifici per completare la loro immagine” auspicato nella Carta del Machu Picchu. Sono essenziali le relazioni che ogni intervento viene a stabilire con i temi ambientali (questione planetaria), con quelli del paesaggio (che identifica ogni comunità) e con quelli specifici del puntuale contesto in cui agisce.

Oltre udito / olfatto / gusto / tatto / vista, abbiamo varie altre capacità percettive. Godiamo particolarmente delle qualità espressive e formali, ma non va ignorato l’ormai antico aforisma dell’iceberg (Aulis Blomstedt, anni ’50): quanto è visibile non è che il semplice segnale di realtà molto più ampie e profonde.

Nelle concrete attività di progetto le “logiche di immersione” nei contesti (ovviamente termine al plurale) prevalgono sulle “logiche interne”, per definizione precarie: da soddisfare sapendo che le ragioni profonde di un intervento sono complesse, non ammettono semplicismi.

 

  1. La qualità diffusa nella composizione della città. La bellezza sta nell’equilibrio

L’equilibrio porta serenità, così quando ci troviamo a passeggiare in una città ci sentiamo a nostro agio se – anche inconsciamente – percepiamo che tutti i frammenti del mosaico sono al loro posto. La Piazza del Duomo di Pisa è senza dubbio uno degli spazi più belli del mondo: oltre ad ospitare mirabilia architettoniche ed esprimere dettagli e proporzioni straordinarie, è un luogo dove, nonostante la magnificenza, ti senti in armonia anche oltre la bellezza soverchiante dei marmi perché tutto è al posto giusto. Questo è certamente un esempio estremo, ma simbolo di bellezza, composizione, equilibrio in grado di tradurre straordinariamente l’essenza della città di cui fa parte. Alla stessa maniera un qualsiasi quartiere di una qualsiasi città è degno di una corretta composizione in modo che coloro che lo vivono si sentano a loro agio, in qualche misura “a casa”.

Come possiamo pensare di recuperare e dare nuovo senso a quelle parti di città che, al contrario, hanno perso  – o non hanno mai avuto – questo significato?

 

MPC     Credo che la “Lettera enciclica sulla cura della casa comune” (2015) sia un documento straordinario nel suo spaziare da principi ecologici a ogni altro tema di interesse collettivo, dalla scala planetaria a quelle minute. Le priorità riguardano comunque ciò che è al di sopra di interessi ristretti. Armonia e bellezza di un ambiente di vita sono innanzitutto in quanto lega i singoli episodi che lo definiscono. “Architettura per i luoghi”: a Tokyo, rivolgendosi a un pubblico di architetti, Win Wenders lanciò un invito ad agire sullo stesso principio: Vorrei che provaste a considerare ciò che per definizione è l’esatto contrario del vostro lavoro: voi infatti non dovete solo costruire edifici, bensì creare spazi liberi per conservare il vuoto.

A volte raffronto il lavoro degli archeologi -che da frammenti cercano di ricostruire il senso che aveva un insieme- a quello del tutto diverso degli architetti del futuro che -magari demolendo o inserendo frammenti materiali o immateriali- hanno il difficilissimo compito di dare senso a contesti urbani che ne sono totalmente privi. Innanzitutto creando relazioni, cercando di lavorare negli spazi interstiziali, ridisegnando vuoti e luoghi di condensazione sociale: il che implica riconvertire o immettere.

 

 

  1. La città equa e l’equilibrio sociale

E’ il tema della quinta Biennale di Architettura pisana: si parla di città condivisa, di come e quanto l’architettura possa contribuire per raggiungere un nuovo equilibrio sociale. Il disagio è nell’aria, è chiaramente percepibile, la distanza tra le esigenze che si manifestano e le soluzioni quasi sempre insufficienti sta diventando insopportabile. La città avrà a nostro avviso un ruolo determinante: l’obiettivo cui tendere è una città morbida, che accoglie, che non lascia nessuno indietro. Gli architetti possono molto, certo non da soli ma con la loro sensibilità e con le loro conoscenze possono indicare una direzione che poi dovrà essere messa in atto dall’azione politica. Ognuno deve portare il suo contributo pensando ad un futuro più giusto.

Come l’architettura a tuo avviso può contribuire in questo senso?

 

MPC     La città equa è quella nella quale non prevalgono egoismi. Per noi -nella nostra cultura- le città sono insiemi compatti, ricchi di luoghi collettivi, piazze cariche di significati, edifici nei quali i cittadini si identificano. L’irruente risposta al crescere delle esigenze (non solo dovuta all’esplosione demografica, alle opportunità tecnologiche, ma anche all’ovvia “ribellione delle masse”) ha favorito territori urbanizzati nei quali i singoli componenti -per dirla con Konrad Lorenz- non hanno più “l’informazione” che dovrebbe tenerli insieme, né solidi principi di aggregazione.

Si è determinata una frattura concettuale fra quanto identifica “città” e ”urbano”: per questo sono convinto che oggi la grande sfida sia quella di “civilizzare l’urbano”, rendere “città” immensi edificati privi di senso. Non si tratta di “rammendare”, non basta “rigenerare”: occorrono azioni convinte che diano senso a quanto oggi ne è privo. Operazione difficilissima alla quale possono collaborare principi ormai quasi antichi, pazientemente costruiti a partire dalla seconda metà del secolo scorso e che nel 2001 hanno trovato ne “la città dei cinque minuti” uno slogan felice.

Ecco quindi che sia alla piccola scala, sia in reti di ampie dimensioni, nasce un obiettivo apparentemente funzionale, ma che è creazione di identità, di paesaggi stimolanti, di fattori aggreganti e socializzanti.

 

  1. Costruire secondo principi per il benessere collettivo

Teniamo molto a questo aspetto; il benessere collettivo. Oltre le inevitabili differenze dobbiamo individuare quella linea di demarcazione al di sotto della quale non sia lecito andare. E’ necessario aspirare per ciascuno di noi ad un’adeguata qualità della vita e in questo la città riveste un ruolo determinante. Costruire la città secondo questi principi è un atteggiamento filosofico portatore di conseguenze positive.

Come possiamo contribuire come cittadini e come architetti al benessere collettivo?

 

MPC     In quest’ottica è molta chiara la sintesi espressa dal titolo della V° edizione della Biennale di Architettura di Pisa -“La Città condivisa. L’architettura per un nuovo equilibrio sociale”– benché sia evidente che l’architettura può e deve contribuire, certo non determina. L’aspetto fisico di una città è diretto riflesso della comunità / civiltà che lo determina.

Architettura è democrazia; Architettura è partecipazione; Architettura è paesaggio: è chiaro che in queste -come altre simili affermazioni- la parola “architettura” non può identificare singole costruzioni, ma si riferisce ai complessi sistemi di relazioni che definiscono “ambienti di vita”, continuamente modificati dalle azioni e dalle presenze umane.

Oggi spesso prevalgono altri obiettivi. I singoli interventi non hanno più interesse a formare paesaggi e creare città. Questa fondamentale preoccupazione -l’essenza del costruire- ormai sembra una perversione di pochi. Grazie a continui intrecci teoria/prassi e frequentazioni preziose, io sono uno di questi pervertiti. Sono interessato alla qualità di paesaggi e ambienti di vita più che all’architettura; sperimento la poetica del frammento più che interventi conclusi in sé stessi; do spazio alle logiche d’immersione prima che alle qualità interne degli interventi; credo nell’assoluta priorità della conversione ecologica, attraverso una visione sistemica che mitighi ogni ottica di settore.

 

 

  1. Architettura frugale per città consapevoli

Crediamo che oggi più che mai possiamo fare buona architettura senza sprecare risorse. E’ un dovere che ci obbliga ad un maggiore impegno nella ricerca e nello studio in modo da costruire spazi densi di significato. Un’architettura frugale nell’uso delle risorse, attenta a non sprecare, creativa nel fare bene con meno, mai povera di significati, ma ricca di qualità compositiva e di attenzione per il dettaglio: è la meta che riteniamo sia indispensabile perseguire nell’epoca attuale.

Come rendere maggiormente consapevoli le nuove generazioni di progettisti che questa rappresenta l’unica strada per una città sostenibile, solidale ed equilibrata?

 

MPC     La “Dichiarazione dei Doveri dell’Uomo” (Le Carrè Bleu, 2008) -rispetto ad habitat e stili di vita, nel rispetto delle diversità- afferma che è necessaria massima condivisione e   per raggiungere le mutazioni auspicate. Questa consapevolezza deve permeare la collettività, quindi chi domanda progetti e trasformazioni. Committenti consapevoli ed esigenti spingono alla formazione di progettisti sensibili ed esperti.

Anche il “Manifesto per una frugalità felice e creativa(2018) è un buon contributo, così le “Copenhagen lessons” (2023) e tanti documenti di questo genere: presuppongono però un diffuso cambio di mentalità, ampia partecipazione e soprattutto le “precondizioni” enunciate nelle sette linee guida del “Codice Europeo della progettazione teso alla qualità degli ambienti di vita” (Le Carré Bleu, n°2-3/2023). Le dichiarazioni di principio hanno senso, ma devono tradursi in strumenti idonei ad attuarle concretamente.

Si parla da decenni dell’urgenza di un vero cambiamento di fase. Credo difficile non condividere che “I limiti dello sviluppo” (Club di Roma / MIT 1972) abbiano segnato una data emblematica, l’avvertimento poi via via sostanziato nel tempo da dati scientifici, sempre più allarmanti ma che purtroppo impattano con egoismi, contrasti di interessi, malapolitica.

 

 

  1. Le invarianti all’interno della visione di Massimo Pica Ciamarra per una città più solidale

in conclusione di questa conversazione vorremmo che tu ci indicassi le invarianti che a tuo giudizio devono guidare un progetto che persegua i principi alla base della quinta edizione della Biennale di Architettura di Pisa: la città condivisa, l’impegno, la generosità e la solidarietà.

 

MPC     Non è la prima volta che richiamo il fortunato titolo del libro di filosofia morale di Ruwen Ogien -“L’influenza dell’odore dei cornetti caldi sulla bontà umana” (2011)- perché indirettamente porta a ragionare su come i caratteri degli ambienti di vita possano influenzare i comportamenti umani, spingere verso coesione sociale, collaborazione, solidarietà. Questi valori universali si declinano diversamente in ogni realtà, quindi con sfumature diverse in ogni cultura; sono particolari in quella europea e mediterranea per la quale città e paesaggi hanno identità e significati propri, oggi corrosi anche da impennate demografiche e velocità di spostamento degli abitanti. È stata messa in crisi ogni crescita lineare, si sono creati “salti” e condizioni di volta in volta inedite. La dilatazione degli spazi ha sostituito la compattezza della città tradizionale, mentre gli abitanti ormai sempre più sono al tempo stesso stanziali e nomadi.

Certo la condizione di transizione che ci caratterizza rende tutto molto difficile. L’affermarsi di valori diversi e la risposta diretta alle irruenti domande della contemporaneità hanno creato diffuse metastasi urbane. Ormai non è più tollerabile “l’era della ignoranza ingiustificata”: abbiamo strumenti che consentono di tenere insieme ogni informazione dei territori, ogni programma; anche di simulare gli effetti di ogni ipotesi. Ma occorrono terapie adeguate. Decise e pazienti al tempo stesso, che riflettano la nuova dimensione dei territori. Soprattutto occorrono mutazioni mentali.

Credo nella necessità di creare reti di “luoghi di condensazione sociale”, ambienti di vita che intreccino attività e paesaggi -stimolanti, rasserenanti- che influenzino spiritualità, socialità, sensazioni di sicurezza, economia, condivisione, collaborazione, benessere collettivo (che è poi anche individuale).

Da non molto ho riordinato gli appunti del mio intervento -“Antropocene o Ecocene”,  in conclusione del IV° Convegno Nazionale dell’”Italian Institute for the Future”- dove ragiono su “sette conversioni” che credo sostanziali per invertire i processi degenerativi tuttora dominanti, in qualche modo anche premessa per pervenire a “città condivise”.

 

 

 

 

Massimo Del Seppia Architetto